Ultimo Urlo - Inviato da: Panzerfaust - Sabato, 02 Gennaio 2010 15:56
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Gastone Manzoni

 .: Uno del Barbarigo : Gastone Manzoni

Ricordiamo con le sue memorie Gastone Manzoni,
scomparso nel mese di maggio del 2000.

Nel suo scritto che segue troviamo una sola cosa : 
l'anima di una persona che "Era quello che era".....
ovvero uno del Barbarigo.

A cura di Marino Perissinotto.

In tempo di guerra si facevano due corsi allievi nocchieri ogni anno; ciascun corso prevedeva sei mesi a scuola, e sei a bordo.
Io ho partecipato al corso che si è svolto a cavallo fra il 1942 ed il 1943, a La Spezia.
Si trattava di un corso supplementare nocchieri, che normalmente era svolto a Pola; ma a causa della guerra era stato trasferito a La Spezia.
Mentre gli altri miei compagni alla fine dei primi sei mesi sono stati imbarcati, io, terminata la prima parte del corso sono stato trattenuto alla scuola quale istruttore. Ero molto bravo nel far marciare gli allievi persino in fila per dodici, avendo avuto precedenti quale primo cadetto degli Avanguardisti Marinari della GIL.
Quando giunse l'otto Settembre io ero capocorso.
Alla notizia dell'armistizio tutti, io compreso, siamo scappati dalla scuola; tutti, allievi ed ufficiali!
Mi sono fermato a La Spezia, ospite di una famiglia.
Dopo qualche tempo, ho saputo che a Muggiano c'era questa formazione, la Decima MAS, e mi sono presentato verso il 15 Settembre.
In quel momento c'erano solamente gli ufficiali della vecchia Decima; credo di potermi annoverare fra i primi 50 o 60 volontari.
Non c'erano divise, non c'era niente. Sono stato invitato a ripresentarmi, e sono stato preso ufficialmente in forza il 23 Ottobre 1943; sul mio tesserino quella risulta, infatti, come data dell'arruolamento. Mi ricordo quel giorno poiché ci siamo trasferiti da Muggiano a San Bartolomeo.
Sono stato quindi mandato in licenza il 17 od il 18 di Dicembre, dopo che per un periodo, mentre io indossavo il maglione ed i pantaloni della mia vecchia uniforme, siamo andati alla ricerca di bettoline dell'ex Regia Marina nelle varie rade ed insenature del Golfo di La Spezia per recuperare il materiale che vi trovavamo a bordo.
Mi ricordo che sono arrivato col treno a Padova quando era appena avvenuto il primo bombardamento della città.
Siamo rimasti ad aspettare nei vagoni, fuori della stazione, per un'ora e mezza, e vi siamo entrati giusto in tempo per essere bombardati.
Dopo aver aiutato i miei a sfollare, sono rientrato a La Spezia.Eravamo ancora senza divise, e lo siamo rimasti per quindici o venti giorni. Quindi abbiamo ricevuto i capi dell'uniforme, ma senza cappotto.
Di quei primi giorni mi ricordo un episodio.
Mentre degli NP montavano la guardia, un sottufficiale tedesco entrò senza salutare la bandiera.
Fu preso, e buttato in mare.
Quindi gli NP iniziarono a sfotterlo cantando.
Quando tentava di risalire, coi piedi gli spingevano la testa sott'acqua.
Quando c'erano i bombardamenti, noi usavamo per rifugio una caverna lunga che si trovava davanti alla caserma e che faceva due curve.
Io dapprima avevo chiesto di andare ai reparti navali, forte dei miei precedenti, ma non c'era più posto.
Allora feci domanda per andare agli NP, e fui accettato, ma quando seppi che bisognava fare un corso a Jesolo, avendone già abbastanza di scuole e di corsi, preferii passare al Maestrale, e come me fecero molti altri.
Nel Maestrale fui assegnato in un primo tempo (credo per un paio di settimane) alla seconda od alla terza compagnia (allora gli spostamenti e le trasformazioni erano continue).
Però mancava un sottocapo all'ultima squadra della IV compagnia, e mio malgrado fui trasferito alla IV squadra del IV plotone della IV compagnia.
Sapevo della faccenda di Tedeschi e Tortora perché pochi giorni prima che io partissi per la licenza, arrivarono a San Bartolomeo questi due ufficiali, mandati da Supermarina per assumere il comando sia della Decima, sia dei battaglioni che si stavano formando.
Questo non fu molto gradito ai marò, e neppure agli ufficiali.
Quella mattina era domenica, perché c'era la messa al campo.
I tre reparti presenti a S. Bartolomeo erano gli NP, il Maestrale, e parte del Lupo, che era in formazione.
Fra i marò ed i graduati si sentiva questa aria di sollevazione, di non gradimento della presenza degli ufficiali, anche perché non c'era Borghese per chiarire la faccenda.
Penso sia stato un complotto d'ufficiali (Bardelli, Buttazzoni, Lenzi e qualche altro).
Fattostà che durante la messa, l'ufficiale di giornata venne a parlare col comandante, che era al centro vicino all'altare.
Gli sussurrò alcune parole all'orecchio, e poi seppi gli annunciava che era desiderato al telefono.
Da quello che mi dissero, come arrivò in ufficio, si trovò un mitra puntato alla schiena.
Fu arrestato, e la stessa sorte e lo stesso trattamento spettò al comandante in seconda.
Da quello che mi risulta, furono consegnati come spie del nemico alla GNR.
Quando si accorsero della faccenda, dopo le grandi proteste dei due ufficiali, Ricci, comandante la GNR, cercò Borghese e lo invitò ad andare a Salò da Mussolini.
Non so se Borghese parlò con Mussolini o meno.
So solo che fu arrestato durante il viaggio e chiuso in carcere a Brescia.
La notizia si sparse rapidamente fra i marò.
Ci fu grande fermento, grandi grida, grandi proposte d'azioni.
Di questo si accorsero anche gli ufficiali, e fu esplicitamente proposto di compiere un'azione su Salò per liberare il comandante.
Eravamo tutti pronti, e da due giorni non andavamo in libera uscita, quando il com. Grossi, precipitatosi a San Bartolomeo, promise la liberazione di Borghese; promessa mantenuta il giorno successivo.
Per qualche giorno ci fu un via vai d'alti ufficiali della Marina e del GNR, ci fu un'inchiesta con la consegna degli ufficiali del Barbarigo e degli NP, la minaccia di un processo, e di una decimazione.
Il tutto finì in una bolla di sapone, ma sapemmo che per il Maestrale ci sarebbe stata la sanzione di essere mandato al fronte, cosa che a noi fece molto piacere, perché si voleva solo quello.
Non so per quale ragione, non fu preso nessun provvedimento per gli NP, che pur avevano partecipato alla cosa,
Dopo qualche giorno al battaglione fu consegnata la bandiera di combattimento, e sapemmo in quel momento che si chiamava Barbarigo.
Un giorno, credo l'11 Gennaio, ci fu il giuramento del Maestrale, con sfilata fra due ali di gente silenziosa ma incredula di vedere ancora soldati italiani. Penso sia stata la prima sfilata della Decima.
Mi ricordo che all'epoca portavamo ancora le stellette, e che sfilammo per tre.
Nella sfilata, con nostra meraviglia, la banda della Marina aveva la divisa nera, e suonò per tutto il tempo solamente "Le palle di Noè".
Questa musica fu suonata anche in occasione della visita del maresciallo Graziani; stavolta però la banda era vestita in grigioverde come tutti noi.
Accadde a metà Gennaio, e noi non eravamo tutti in divisa.
Il maresciallo ci visitò a San Bartolomeo.
Mi ricordo un pattugliamento a Sarzana, dove ci avevano informati che c'erano delle armi nascoste in una casa.
Trovammo le armi ma non trovammo nessuna persona. Penso che nell'azione siano state impegnate due compagnie.
Nel ritorno uno dei nostri mise un piede in fallo e cadde in una specie di burrone. Riuscimmo a raggiungerlo dopo qualche ora, ma era già morto. Fu vegliato in una piccola casetta sul lato centrale e vicino alla sala mensa.
La quarta non andò a Cuneo, ma rimase a La Spezia con un altra compagnia. Si continuò l'addestramento, ma soprattutto con marce.
Le armi, i mitra MAB, li avevamo avuti già da Ottobre.
Oltre a ciò avevamo pugnali di varia foggia, inclusi i "becchi d'aquila", pistole di vario tipo (io mi ricordo d'avere portato una vecchia pistola d'ordinanza dei carabinieri infilata nel cinturone).
Dopo l'8 Febbraio 1944 (data del secondo bombardamento di Padova) ebbi un'altra licenza, e giunsi a casa con questo pistolone, perché nel tratto Spezia - Padova ci fu un attentato al treno, con l'uccisione di diversi della Decima che furono poi ritrovati nudi nella scarpata.
In licenza dovevamo andare disarmati, e ci fu consigliato di prendere la linea Genova - Milano - Venezia, percorso più lungo ma più sicuro.
Il ritorno, sette giorni dopo, il 15, avvenne in tempo utile per sapere che il battaglione non si chiamava più Maestrale ma Barbarigo.
Il 18 od il 19 ci fu una sfilata per la partenza del battaglione.
Alla partenza del 20 per il fronte io ebbi l'incarico di fermarmi a S. Bartolomeo con un ufficiale a raccogliere tutti quelli che rientravano dai vari permessi o dalle licenze, non essendo stata comunicata a nessuno la partenza del battaglione.
Il nostro viaggio per Roma fu fatto in pullman, sul tragitto La Spezia, Viareggio, Orvieto, Roma.
Il viaggio del battaglione andò a buon fine, ma fu molto periglioso.
Ci fu anche un attentato; una mina fu gettata sul tram che collegava La Spezia a San Bartolomeo.
Morirono una donna ed una bambina, e furono feriti numerosi marò.
Il mio viaggio, iniziato il 25 (giorno del mio compleanno) od il 26, andò liscio come l'olio.
Mi ritrovai anche col mio commilitone della GIL Sergio Ginnasi, proveniente da Jesolo, ed appartenente al Lupo.
Ci abbracciammo a lungo, avendo fatto assieme molte cose.
Lui mi chiese ripetutamente di venire al fronte con noi; io lo persuasi che, se gli fosse capitato qualcosa, avrei dovuto cambiare città per l'odio della madre, che già mi attribuiva la responsabilità di averlo fatto arruolare alla Decima.
Partimmo subito e non lo rividi più.
Ginnasi morì il 4 Dicembre 1944, sul Po, in un incidente che molti dicono causato dai partigiani.
Arrivati a Roma, feci in tempo a partecipare alla piccola scaramuccia con la PAI, che si risolse con il dono, da parte loro, di un pugnale di foggia africana detto Billao, in segno di pacificazione.
Infatti, avvenne un incidente fra alcuni nostri commilitoni in libera uscita, penso per un ritardo sul coprifuoco.
Essi furono malmenati da una pattuglia della PAI.
Ci fu una ritorsione, un paio di compagnie andarono alla caserma e gettarono un po' di cose per aria.
Fu solo l'opera di pacificazione dei nostri ufficiali a non fare succedere cose più gravi.
Poi venne la partenza per il fronte, dopo una serie d'altre cerimonie e riviste cui non ho partecipato, perché andavo più volentieri a visitare musei e monumenti che non alle parate.
Partimmo per vari scaglioni; eravamo a bordo di camionette da quattro persone, tutte tedesche, capaci di quattro o di sei posti, oltre ai due anteriori.
Credo noi ci si sia mossi la mattina; avemmo un mitragliamento aereo con tuffo dentro ad un fossato, e per la prima volta sporcai la mia sino ad allora linda ed unica divisa.
Ricordo che appena fuori Roma iniziò una pioggia violenta.
A Sermoneta dapprima fummo alloggiati in una chiesa abbandonata, ma completamente arredata, e dormimmo parte a terra e parte sulle panche.
Il giorno dopo si andò in una scuola con un po' di paglia per terra.
Il giorno tre, a piedi, si andò fino al Lago di Fogliano, dove la IV compagnia si allineò fra il lago stesso e la Strada Lunga.
Io fui assegnato ad una buca in un avvallamento, sopra un canale di scolo, con un marò che si chiamava Natola.
Dalla buca si vedeva il bosco sulla destra del lago, l'albergo, ed una casa che molti dicevano essere appartenuta ad un alto gerarca, forse allo stesso Ciano.
La casa era del tutto spoglia.
Dall'albergo prelevammo dei piatti e delle porte, che usammo per metterle sul fondo delle buche e salvarci un poco dall'umidità.
I bombardamenti erano costanti; io ho fatto tre o quattro pattuglie nella terra di nessuno, quasi tutte miste d'italiani e di tedeschi.
Ci mancava ancora l'artiglieria, che arrivò successivamente, credo alla fine di Marzo.
Ad Aprile, prima del trasferimento a Sezze, una notte sentimmo, grazie a dei barattoli appesi al filo spinato sul fondo del canale, che aveva pochissima acqua, l'avvicinarsi di un reparto nemico.
Subito iniziammo a sparare, e da ambo le parti si scatenò una intensissima massa di fuoco.
Spararono anche dalle postazioni laterali alle nostre.
Il mattino successivo, esplorando la zona, non trovammo nessun corpo, solo tracce di sangue e dell'equipaggiamento, con tanto ben di Dio dentro.
Ogni notte, qualcuno apriva il fuoco per un rumore, e di norma quando si sentiva sparare, sparavamo anche noi.
Io avevo una buca a sinistra, più alta e con un nido di mitragliatrici, a portata di voce.
L'altra, sulla destra, con tre persone, io non l'ho mai vista.
Ho visto pochissimo anche i miei superiori.
Di giorno non potevamo uscire dalla buca neanche per fare i nostri bisogni, perché ci davano la caccia coi mortai, o ci mitragliavano.
Non molto lontano dalla mia buca, dopo il nido di mitragliatrici, ad un crocevia c'era una squadra di tedeschi con un "88", e molte sere mi invitavano a cena. Date le scarse razioni che ci venivano qualche volta date, noi avevamo una fame del diavolo.
Il riso che ci davano si attaccava al mestolo da quanto colloso era, e ci procurava un fortissimo mal di stomaco.
In un'occasione riuscimmo a catturare un puledro; la carne fu cotta alla brace e divisa fra tutti, permettendo una scorpacciata di carne.
Non ci curammo del fumo, che ci poteva causare molti guai.
Questo perché, non dipendendo dai tedeschi, gli italiani si arrangiavano come potevano.
Questo stato di cose cambiò abbastanza dopo il rientro dal cosiddetto "riposo" fatto alla sottostazione di Sezze Romano.
Mentre eravamo in linea nella zona di Fogliano, fu catturato un ragazzo che dicevano armato di una pistola.
Abbiamo dovuto dare il cambio per un turno di guardia al piccolo magazzino dove l'avevano rinchiuso.
Interrogato da me, questo ragazzo mi convinse che non era un partigiano (peraltro non ne ho mai incontrati in quel periodo) e che non aveva avuto nessuna arma; che abitava a Littoria e si dichiarava completamente innocente.
Mi misi a rapporto dal comandante Bardelli e gli spiegai la situazione. Capii che anche lui era convinto che il ragazzo non ne sapeva niente di niente.
Mi autorizzò a lasciarlo andare.
Mi ricorderò sempre la sua espressione, quando gli aprii la porta e se la filò, dicendomi "Grazie, Grazie".
Da questo e da altro si può capire la bontà del comandante Bardelli, che per sua sensibilità fu massacrato ad Ozegna.
Il cambio per Sezze non ci fu dato sul posto; abbandonammo le buche squadra per squadra, senza vedere chi ci rimpiazzava.
La partenza avveniva squadra per squadra.
Camminammo tutta la notte, ed alla mattina fummo alloggiati nella casa ferroviaria della sottostazione.
Il periodo, che durò circa 10 giorni, fu abbastanza buono come vitto ma massacrante come addestramento, e questo si chiamava riposo!
Però imparammo ad usare i panzerfaust, facemmo dei tiri con l'MG 42, feci il lancio delle bombe a mano, si imparò la tattica di gettarsi a terra e di assaltare gridando la parola "varco".
In quel periodo avemmo un cannoneggiamento marittimo da parte di navi nemiche; le esplosioni facevano fare ai carri merci abbandonati nella sottostazione dei gran movimenti a destra ed a sinistra, e da parte nostra vi furono grandi fughe nei campi vicini, con tuffi nei vari canaletti, ma con nessun danno.
Intermezzo simpatico, fu una partita di calcio fra la prima e la quarta squadra, a Sezze.
Avemmo anche uno stato d'allarme per la caduta degli avamposti Dora, Frida ed Erma. Fu dato un allarme notturno e la cessazione all'alba, perché ci dissero che andò tutto bene.
Particolare piccante, mi ricordo che alla sera veniva una vecchia (se si può chiamare vecchia) megera, che vendeva quella che diceva essere sua figlia, una ragazza sui 20, 21 anni, abbastanza sporca e puzzolente, la quale, avuto quello che si poteva dare in denaro od in altro, passava di branda in branda dai clienti per soddisfarne i giovanili ardori.
Non ne volli mai approfittare, perché puzzava troppo.
Seppi poi che qualcuno si ritrovò come gentile ricordo la blenorragia e simili piccole infezioni.
Da Sezze rientrai senza il buon Natola, che aveva respirato l'aria di sconfitta e se n'era tornato a casa.
Nuovo compagno di buca fu Russo Gaio, figlio del direttore dei telefoni di stato, d'origine romana e padovano d'adozione.
Lo avevo conosciuto durante il viaggio da La Spezia a Roma, e facemmo coppia fissa nella visita a San Pietro ed ai Musei.
In linea generale, in quella prima esperienza di fronte ce la cavammo, almeno noi della IV, con diverse perdite causate soprattutto dai bombardamenti e da qualche scontro di pattuglia.
Alla fine d'Aprile ritornammo in linea.
Noi demmo il cambio alla seconda compagnia.
La mia nuova buca era sulla destra della Strada Lunga, verso i monti, sotto il ciglio della strada, formata da un'apertura con uno spazio di due per due metri, e da una buca sotto la strada che usavamo solo per dormire durante il giorno.
Alla notte si andava trecento metri più avanti, in una lunga buca fatta ad S, dove due persone avevano tanto posto, e che poteva ospitarne dieci.
La buca notturna era presso il fosso del Gorgolicinio, e dal letto cementizio del canale si allungava verso Terracina in un fitto boschetto.
Il fosso del Gorgolicinio era a tre o quattrocento metri dal canale Mussolini.
Un aereo cadde duecento metri dietro la buca diurna, e non subimmo conseguenze, perché cadde di notte.
Qualcuno disse che era americano, qualche altro tedesco. L'aereo scomparve nel terreno fangoso, e ne emergevano solamente le pale dell'elica.
Non abbiamo mai saputo niente di più.
Ci fu l'attacco al fosso del Gorgolicinio.
L'attacco fu fatto da una pattuglia, di notte.
Fu un attacco abbastanza ravvicinato, ma non ebbe conseguenze.
Quando dalle nostre postazioni aprimmo il fuoco, il pattuglione nemico rispose, quindi si sganciò e rientrò nelle sue linee.
Da quel periodo in avanti sentivamo un tremendo puzzo di cadavere che la brezza del mare portava dalla parte nostra, ma non ci fidavamo ad esporci per vedere.
Solo dopo un certo periodo e con grande sforzo ho imparato a non vomitare quando mangiavo.
Una volta, per sgranchirmi le gambe, andai a prendere il rancio.
Mentre stavo prendendo il pane, arrivò un colpo di mortaio sull'angolo della casa comando dove era distribuito il rancio.
Ci furono diversi morti della IV compagnia, e la perdita dolorosa del rancio per due giorni.
Dalla parte destra della buca, ogni notte c'erano attacchi, non di fronte a noi ma sul lato destro.
La buca era scoperta, e ci piovevano addosso i colpi di copertura americani che ci facevano stare sulle spine.
Avemmo poi la sfortuna di avere per una notte un gruppo di cannoni autotrasportati, penso tedeschi, i quali, dopo che un ufficiale tedesco era stato nella nostra a buca a controllare le fiamme dei cannoni americani, spararono un centinaio di colpi e se ne andarono la notte stessa.
Le conseguenze, ossia un fuoco infernale, durarono in ogni modo a lungo.
Il Gorgolicinio ad un certo punto, nelle retrovie, faceva una sorta di cascatella di circa un metro, e l'acqua sembrava pulita.
Ero così tanto sudicio e sporco, che fidando nella protezione divina, mi spogliai e feci un ricco bagno.
Il maglione, messo al sole, dopo pochi minuti brulicava di pidocchi.
Questi erano così bene abituati che iniziavano a protestare.
Allora presi il famoso pugnale della PAI e raschiai per bene il maglione.
Feci altre due pattuglie.
In una di queste, quello che mi precedeva disse d'avere scorto un campo dove erano piantati dei finocchi.
Subito ci andammo, e la pattuglia terminò dopo che avemmo mangiato e fatto scorta, senza badare alla terra che incrostava le piante.
Durante la partita di Sezze Romano, il comandante Bardelli venne a sedere vicino a me, e facemmo un lungo discorso.
Mi chiese informazioni su di me, sul mio passato, sulla mia famiglia.
Si parlò come due vecchi amici.
Egli si ricordò di me per una missione che oggi si definirebbe umanitaria.
Si sapeva che non lontano da noi, verso la terra di nessuno, c'era un vecchio mulino dove c'erano dei sacchi di grano dell'ultimo raccolto.
I civili erano ridotti allo stremo, ma non si fidavano di andarli a prendere.
Un cittadino di Littoria, non so se funzionario comunale o concessionario automobilistico, parlò col comandante Bardelli.
Egli mi affidò l'incarico di ricuperare il grano e portarlo a Littoria.
Con un altro marò impiegammo tutto il giorno e parte della notte a portare questi sacchi nelle linee, e quindi ne portammo una parte a Littoria ed una a Norma, con grandi festeggiamenti da parte della popolazione.
Scortammo il carico armati di tutto punto, facendo attenzione ai "malpensanti", fra cui c'erano alcuni tedeschi.
Il viaggio andò bene e non fummo molestati.
24 Maggio 1944.
Gia da tre o quattro giorni si sentiva un movimento di carri armati ed un grande fuoco d'artiglieria, i mitragliamenti aerei ed i cannoneggiamenti erano molto aumentati.
Un pomeriggio venne un sottufficiale del quale io custodivo la pistola, che lui mi aveva consegnato.
Mi disse che l'ordine era di radunare tutti gli uomini delle buche vicine presso la mia buca, e di tenere le posizioni fino a mezzanotte.
Così fu, e tutti ci si chiedeva cosa fare, se minare o mettere bombe a mano con lo spago.
Mi venne l'idea del cartellone.
In un foglio di carta, con una penna nera, scrissi in grande le parole "Ciao Nemico".
Piantai tutto su una tabella che innalzai sulla mia buca.
A mezzanotte iniziammo il ripiegamento; eravamo 12 o 13 persone, alcune delle quali mi erano sconosciute.
Uno di loro aveva fatto la ritirata di Russia e gli proposi di unire le nostre due forze mettendoci uno in testa ed una coda per tenere unita la squadra, che non era molto affiatata perché fatta da quasi sconosciuti.
Marciammo tutta la notte, passammo in fianco a Littoria, si passò la Via Appia all'altezza della sottostazione e dell'aeroporto.
Piegammo un po' verso destra e verso l'alba, in una casa colonica, vedemmo un gruppetto di marò del Barbarigo che avevano fatto fare dagli abitanti della polenta e la mangiavano con del formaggio.
Ci fermammo anche noi, e seppi dopo che lì c'erano anche Giussani ed Olivotti.
Ci riposammo qualche ora e poi ci avviammo verso Norma, punto d'appuntamento della IV compagnia.
Attraversammo ad un certo punto un oliveto, quindi c'era una spianata, e poi un altro oliveto.
C'era una stradina laterale che portava ad una chiesa distante dalla strada 30 o 40 metri.
Lì c'era un ospedale da campo, e vidi un sottufficiale uscire con due secchi pieni di gambe e braccia amputate.
Egli ci guardò.
Noi eravamo seduti nel secondo oliveto, all'angolo di questa stradina, ed io mi ero liberato di tutto il superfluo che avevo nello zaino.
Ad un certo punto sentimmo delle cannonate secche e ritornammo indietro di corsa per circa un chilometro.
Erano le prime luci dell'alba e si vedeva bene.
Avevamo davanti un oliveto.
Ad una certa distanza vedemmo due Sherman e molti marò caduti attorno ad una casa, presi di sorpresa.
Eravamo a 100 - 150 metri dai carri e tentammo un lancio di panzerfaust.
Il lancio o andò a vuoto o colpì un cingolo.
I carri armati girarono le torrette e cominciarono a fare fuoco sopra di noi.
Dopo i primi due o tre colpi fummo centrati e io, colpito alla testa e ad una mano, persi conoscenza.
Non so quante persone morirono e quanti furono feriti. Ci fu un fuggi fuggi, ed io privo di conoscenza, non seppi mai come arrivai a Norma.
Fin qui le mie vicende a Nettuno. Ma manca ancora qualcosa: il perché.
Perché dopo l'otto Settembre non sono tornato a casa o non mi sono rifugiato in montagna, perché non ho tenuto fede al mio giuramento fatto al re?
Io, l'ho detto, ho fatto parte della G.I.L. ed ho avuto grandi soddisfazioni da questo.
Ma dopo il 25 luglio la mia fede nei fascisti, se non in Mussolini, è andata del tutto persa. Tutto si è sciolto come neve al sole, tutti hanno rinnegato il loro passato ed il loro capo. Per questo, poi, non ho voluto aderire ad una delle tante formazioni armate politiche, composte perlopiù da vecchi squadristi abbastanza fanatici e da giovinetti imberbi.
L'otto Settembre è crollata anche la mia fede nella monarchia; quel giorno tutti sono fuggiti, generali, ammiragli, tutti. Il comportamento del Re ha invalidato il mio giuramento.
Di andare in montagna, in quei giorni dopo l'armistizio, non parlava nessuno; chi era scappato, cercava di raggiungere la sua casa.
Io avevo perso la speranza di una vita dignitosa in uniforme militare, ma non mi sentivo di chiudere tutto scappando a casa. Poi, tutti parlavano di tradimento, ed io non lo sopportavo; non mi sentivo un traditore e non volevo comportarmi per tale.
La prima cosa che mi ha colpito nella Decima sono state le stellette al bavero degli ufficiali. Quest'unico reparto che continuava a tenere alta la bandiera italiana attirò me, ed un numero crescente di persone.
Perché la mia piccola patria era TUTTA in quella bandiera che sventolava, e nella figura veramente grande del comandante principe Valerio Borghese.

Gastone Manzoni

 

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