Ultimo Urlo - Inviato da: Panzerfaust - Sabato, 02 Gennaio 2010 15:56
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Un giorno nella Bainsizza

 .: Un giorno nella Bainsizza

 

NATALE 1944 Altipiano della Bainsizza

L'episodio qui sotto riportato è stato vissuto in prima persona dal narratore, MARIO FUSCO, del Btg. Barbarigo, e da altri quattro appartenenti alla DECIMA, precisamente dal G.M. ALBERTO PICCOLI (ex ufficiale degli alpini), il marò sc.CARLO CHIESA (conte de' Bosmensi) e altri due marò di cui Fusco non rammenta i dati. Il G.M. Piccoli e il marò sc. Chiesa sono entrambi caduti, dopo circa un mese, sul monte San Gabriele.

"Uscirono con molta prudenza dal limite del bosco degradante dal monte, ad Est della piccola valle, arrancando faticosamente nella neve alta sin quasi al ginocchio. A causa della divisa grigio-scura e delle armi automatiche, i due uomini risaltavano nitidamente sul biancore suggestivo della neve che avvolgeva tutto. Avanzarono lentamente verso la chiesetta che appena si intravedeva, immersa anch'essa nella neve. Sempre con i fucili mitragliatori spianati, si disposero ai fianchi della piccola costruzione e rimasero per qualche istante immobili: poi il soldato che si trovava dalla parte del monte dalla quale erano venuti, fece un segnale agitando tre volte il mitra in aria. Subito dopo un gruppetto di altri militari vestito di scuro, in fila indiana, distanziati e con i mitra imbracciati, seguirono il sentiero appena segnato nella neve alta dai primi due e si trovarono tutti insieme davanti alla piccola porta della chiesetta. Rimasero per qualche minuto ancora fermi, guardandosi intorno anche con due grandi binocoli militari che due di essi portavano al collo; poi entrarono tutti nella chiesa dalla quale già si sentiva venire un sommesso, cantilenante, coro religioso.

Cinque figurine grigioverdi, ben stagliate sulla estesa e spessa coltre di neve bianca, si avvicinavano lentamente, faticosamente, alla chiesina isolata in mezzo alla piccola valle, scendendo dalla costa boscosa ad ovest del villaggio di X, sull'altopiano della Bainsizza. Anche la chiesina, piccola, graziosa, con il tetto a cuspide del suo piccolo campanile slanciato verso il cielo, era immersa nella massa di neve che copriva e tendeva a cancellare tutte le cose, rivelandone solo confusamente i rilievi.

I cinque si fermarono ai margini della piccola valle e, dopo aver scrutato intorno anche con il piccolo binocolo del loro ufficiale, arrivarono uno alla volta, anche loro faticosamente nella neve alta e gelata, sul piccolo spiazzo davanti alla porta della chiesina, dalla quale si udiva già il sommesso cantilenare delle risposte dei fedeli. Rassicurati, batterono pesantemente i piedi per liberarsi della neve gelata compressa sotto gli scarponi, girarono le armi - quattro lunghissimi fucili "91" ed un MAB 38 - con le canne verso il basso ed entrarono.

La Messa era cominciata da poco. I cinque ultimi arrivati si fermarono in piedi alla destra della porta. Davanti ad essi, tre militari in divisa tedesca, molto anziani e con il simbolo della nazione austriaca sul braccio, si voltarono ed uno di essi, con i gradi di Sergente sulla spallina, fece un cenno di saluto, a cui rispose l'ufficiale italiano.

Il sacerdote, un prete molto anziano, officiava in latino (siamo nel '44) e quindi volgeva le spalle all'assemblea dei fedeli. Giunto al momento dell"Orate fratres" dovette per forza girarsi. Rimase bloccato, con gli occhi sbarrati e lo sguardo che si portava lentamente da destra verso sinistra e viceversa. Davanti a lui, in fondo alla chiesina, oltre agli abitanti del villaggio - per lo più donne, bambini e persone molto anziane, tutti raccolti nei primi banchi presso l'altare - c'erano quattro Fanti di Marina della Decima Flottiglia Mas, con il loro ufficiale. I quattro marò si erano tolti l'elmetto ed avevano indossato il loro basco grigioverde con l'ancoretta dorata, mentre l'ufficiale aveva un cappello d'alpino. Tutti avevano sulla manica sinistra del pesante cappotto militare, lo scudetto blu con il simbolo "Xa" e sul bavero le mostrine trapezoidali rosse con il Leone di San Marco in alto ed il Gladio romano in basso.

Dietro l'ultimo banco, davanti al gruppetto della Decima, si trovavano già tre militari tedeschi anziani, con le loro divise grigie e le cosiddette "pistol-mascine" al braccio.

A sinistra della porta, anch'essi in piedi, c'erano una diecina di militari con la vecchia divisa dell'esercito jugoslavo, armati di diversi tipi di mitra - gli aerei anglo-americani effettuavano giornalmente lanci di materia le bellico e rifornimenti diversi ai cosiddetti "titini" (esercito e "bande" slavi comandati dal generale Tito) - quasi tutti in divisa e con la stella rossa sulla bustina. Due di essi invece, anch'essi armati erano in borghese con una stella rossa al braccio.

Ogni tanto qualcuno dei diversi gruppi lanciava una occhiata furtiva verso gli "altri" ma continuarono tutti a seguire con calma la Messa che il povero sacerdote anziano, ripresosi dallo stupore ma sempre pensando a come evitare il peggio, aveva ricominciato ad officiare. Giunto al Vangelo, egli lesse lentamente il testo prima in sloveno, poi in italiano ed infine anche in tedesco, ogni volta guardando il gruppo nella cui lingua traduceva. Non se la sentì di pronunciare una sia pur breve omelia; esclamò soltanto, cercando di sottolineare bene il significato delle parole nelle tre lingue, pur con voce tremante: "Sia benedetto chi oggi è venuto in pace nel nome del Signore" parafrasando il "graduale" della Messa dell'aurora.

Mentre continuava a pronunciare a voce alta o sommessa le parole latine del rito, che per lui ormai, dopo una intera vita di sacerdozio, erano diventate una cosa del tutto naturale, la sua mente ed il suo cuore continuavano a pregare Dio perché, una volta finita la Messa, non accadesse l'irreparabile: su quei monti del Goriziano, dell'Istria, di tutti i Balcani, parallelamente alla Guerra che imperversava in tutto il mondo, si svolgeva una guerra, se possibile, ancora peggiore; una guerra senza tregua e senza limiti, senza prigionieri, senza pietà; una guerra che vedeva opporsi persino gente della stessa nazione, lingua, religione, affrontarsi su opposti fronti in maniera inflessibile e crudele; una guerra senza regole, senza speranza....senza Dio.

Il povero sacerdote pensava a tutte queste cose, pregando intensamente che non accadesse nulla di irreparabile durante o a fine Messa; ed era così intento in questi pensieri ed in questa preghiera che, quando dovette spostare il leggìo con il Messale da una parte all'altra dell'Altare, come prevedeva il rito a quei tempi, nel compiere questo atto, urtò con un angolo del leggìo un piccolo cesto di vimini che conteneva un Bambino Gesù rubicondo e sorridente, certamente vecchia e modesta opera di un artigiano locale.

Il cesto cadde rovesciandosi sui due gradini dell'Altare, ed il Bambino Gesù percorse, rotolando su se stesso, il breve corridoio fra i pochi banchi e si fermò quasi presso la porta chiusa della Chiesetta. Mentre il sacerdote si chinava per prendere il cesto e la paglia che si era sparsa sui gradini, istintivamente sia l'ufficiale italiano, sia quello sloveno fecero un passo verso la statuina che si era fermata praticamente ai loro piedi; tuttavia rimasero un attimo interdetti trovandosi uno di fronte all'altro: due nemici irriducibili, separati solo dalla statuetta di legno colorato del Bambino Gesù ai loro piedi. In altre occasioni ed in altri luoghi, avrebbero ambedue saputo benissimo cosa fare, e già dal momento dell'incontro inaspettato; ma in quel posto, in quello spazio ed in quel tempo sacri, dove essi stessi volontariamente, con i loro uomini, avevano voluto essere presenti, non sapevano più che fare e si limitavano entrambi ad attendere, in una rispettosa inazione: per un attimo, senza neppure guardarsi, rimasero silenziosamente in piedi uno di fronte all'altro.

Il sergente austriaco si rese conto della situazione imbarazzante per i due ufficiali;

si avvicinò lentamente verso di loro, raccolse il Bambino e lo portò al sacerdote, tornando poi al suo posto.

Il vecchio prete finì la messa con lo sguardo fisso al Bambino così ingenuamente scolpito e dipinto da un antico valligiano e, quando fu il momento, si girò verso i fedeli per la Benedizione finale. Prima della formula, mormorò ai membri della sua parrocchia alcune parole in sloveno; poi tradusse anche in italiano e tedesco: "Restate tutti in chiesa..." Poi, alzando la mano benedicente, esclamò la formula di rito: "Benedictio Dei Onnipotentis discendat super vos e maneat semper, in nomine Patris, Filii et Spiritui Sancti, Amen."

A questo punto avrebbe dovuto aggiungere:"Ite, Missa est", ma non lo fece.

Prese fra le braccia il cesto con il Bambino e andò verso la porta. Passando davanti ai tre militari in divisa tedesca, si soffermò e disse loro, in tedesco:" Venite, la Messa è finita, andiamo in pace" .L'ufficiale italiano e quello sloveno parvero capire subito le intenzioni del vecchio sacerdote, perché ognuna di essi si portò ai lati della porta e ne aprì l'anta corrispondente. Il sacerdote uscì sempre tenendo fra le braccia il cesto con il Bambino, seguito prima dai tre tedeschi e poi da italiani e slavi, ultimi i due ufficiali.

Una volta fuori della Chiesetta, il prete pose il cesto con il Bambino sulla neve alta al limite del piccolo spazio libero; poi si girò verso i tre gruppetti di soldati, alzò le braccia al cielo e disse, sia pur con voce tremante ma chiara e forte, prima in latino e poi in tutte e tre le lingue: "Fratelli miei, la Messa è finita...Andate in pace!" Poi si inginocchiò nella neve davanti al Bambino e cominciò a pregare, mentre due lacrime scendevano dagli occhi andandosi a perdere nella barba bianca che quasi si confondeva con la neve.

I due ufficiali si guardarono; l'ufficiale sloveno disse qualche parola ai suoi uomini, che subito si allontanarono verso Est sullo stesso sentiero che avevano formato sulla neve scendendo dai monti. L'ufficiale italiano dette lo stesso ordine ai suoi marò e - pur senza dir nulla - guardò verso il sergente tedesco accennando un saluto con la testa. Il sergente rispose al saluto allo stesso modo e, insieme ai fanti italiani, si allontanò verso Ovest per lo stesso sentiero che avevano formato sulla neve arrivando nella piccola valle. Quando gli uomini di entrambe le parti furono abbastanza lontani, l'ufficiale italiano andò verso il sacerdote ancora inginocchiato nella neve, immediatamente seguito da quello slavo. Entrambi lo aiutarono a rimettersi in piedi ed uno dei due gli rimise fra le braccia il cesto con il Bambino. E, mentre il sacerdote si stringeva al petto quel suo Presepio minimo, i due uomini si guardarono per la prima volta per qualche attimo. L'ufficiale italiano, senza alzare il mitra che teneva sempre rivolto verso il basso, tolse il caricatore dell'arma e se lo mise in una tasca del cappotto. Tolse anche la pallottola in canna, la tenne un istante in mano e poi la depose delicatamente nel cesto del Bambino.

L'ufficiale slavo esitò un attimo; poi fece le stesse identiche azioni che aveva fatto l'italiano; depose, dall'altro lato del Bambino anche lui la pallottola che era rimasta in canna. Poi i due uomini si voltarono ciascuno verso il proprio sentiero e cominciarono a seguirlo lentamente.

Quando tutti i militari furono abbastanza lontani sulle due coste boscose ma non ancora fuor di vista dal campanile svettante verso il cielo, cominciò a diffondersi uno scampanio gioioso che si dilatò nella piccola valle, rimbalzando sulle alture vicine e diventando un coro diffuso pieno di echi ora più gioiosi, ora più solenni. I due ufficiali si fermarono ad ascoltare quel suono di campane che da tanto tempo non avevano più udito e che forse ricordava loro altri Natali passati gioiosamente o almeno serenamente in famiglia; probabilmente non potevano fare a meno di commuoversi e sentirono il bisogno di fare qualcosa, di salutare in qualche modo quello scampanio fuor del tempo e dello spazio - almeno in "quel" tempo ed in "quello" spazio - ; così, come si fossero in qualche modo letti nel pensiero, alzarono ambedue i loro mitra verso il cielo e scaricarono completamente in aria i due caricatori. Era l'unico modo in cui potevano comunicare la loro partecipazione al povero sacerdote che, da solo, con la sua Fede, aveva vinto quella piccola silenziosa battaglia. I gioiosi rintocchi continuarono ancora per un po', anche quando i puntini colorati della gente del paese, che intanto era uscita di chiesa per tornare alle case poco lontane, non si notavano più.

Ed anche quando i due ufficiali nemici, due puntini sulla neve, su due coste nevose e boscose opposte della valle e della vita, erano già da tempo scomparsi alla vista.

Ma per qualche istante, in quella piccola valle sperduta della Bainsizza, un 25 Dicembre, il 1944°, Natale del Signore, il Figlio di Dio, Bambino, era veramente rinato, in mezzo a due nemici e a un vecchio prete. Un vecchio prete che aveva con sè solo la sua Fede...ed una barba così bianca che sembrava anch'essa fatta di neve."

Qui finisce il racconto del marò Mario Fusco, alfiere del Barbarigo. E' una narrazione che sa di poetica ispirazione, che narra non solo gli avvenimenti, che sono realmente accaduti, ma riesce a dirci anche i pensieri ispiratori dei vari comportamenti dei protagonisti.

Grazie, Mario.

 

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